«Io sono in mezzo a voi come colui che serve»
L’autorità nella Chiesa del Signore
Lc 22,24-30
Siamo la Chiesa del Signore, vogliamo essere testimoni di speranza. Sono queste le parole che ci stanno ispirando in questo cammino giubilare, scandito dalle miei visite nelle zone pastorali della diocesi. Vogliamo insieme capire meglio che cosa il Signore ci chiede in forza del Battesimo che abbiamo ricevuto. C’è una missione che ci è stata affidata e alla quale vorremmo essere fedeli, con sapienza e generosità, per il bene del mondo.
In queste visite che sto compiendo, incontrando i sacerdoti e i consigli pastorali, ho piacere di constatare come sia vivo il desiderio di corrispondere alla volontà del Signore lì dove egli ci chiama. Ho voluto che questo impegno di lettura attenta e serena della nostra esperienza di Chiesa, fosse accompagnato dalla preghiera e della meditazione della Parola di Dio. E così ho pensato a momenti come questo che stiamo vivendo, a delle veglie giubilari nelle quali metterci in ascolto della Parola di Dio, in un clima di preghiera, e lasciarci da questa illuminare.
Ho scelto come testo di riferimento il Vangelo di Luca e ho individuato quei brani nei quali si parla della Chiesa, della sua vita e della sua missione. Questa sera la nostra meditazione si fissa sulle parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Sono parole che valgono per i discepoli di ogni tempo e quindi anche per noi. Mettiamoci dunque in ascolto e ritorniamo con la mente e il cuore sul brano del Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato. Dobbiamo anzitutto ricostruire il contesto in cui le parole del Signore sono state pronunciate.
Gesù è giunto a Gerusalemme per la Festa di Pasqua ed è a tavola con i suoi discepoli. È la sua ultima cena con i suoi e anche la sua ultima Pasqua. La sua passione incombe ed egli sente vivo il bisogno di preparare i discepoli allo scandalo della sua morte in croce, ormai vicina. Vuole condurli, per quanto è possibile, a cogliere il significato nascosto di quella sua terribile morte. Durante la cena egli dà loro il pane e il vino che – come egli stesso afferma – sono il suo corpo donato e il suo sangue versato. Spezza il pane e porge loro il calice del vino dicendo: “Fate questo in memoria di me”. Così, in quella cena egli anticipa la sua morte, che è in verità il suo sacrificio d’amore per la salvezza del mondo. Questo sacrificio diviene eterno nel nuovo rito dell’Eucaristia, che sarà sempre celebrato di generazione in generazione.
Durante questa stessa cena Gesù dice ai suoi discepoli: “Uno di voi mi tradirà”. È uno dei Dodici, che è seduto a tavola con lui. Possiamo immaginare il dolore che accompagna questo annuncio. Tuttavia, con sorpresa di tutti, Gesù non rivela il nome di chi sta per tradirlo e fa dunque capire che non intende fermarlo. Egli ha ormai deciso di donare la sua vita in obbedienza al Padre.
Nulla sappiamo della reazione dei Dodici al dono misterioso del corpo e del sangue del Signore, cioè il suo memoriale. Quanto alla notizia del tradimento, il Vangelo di Luca racconta che discepoli cercano di sapere chi potrebbe essere il colpevole, ma, avendo capito che il Maestro non intende svelare nulla, lasciano poi cadere il discorso. Profondamente scossi, forse non vogliono pensarci. La loro attenzione si rivolge altrove.
A questo punto sorge tra loro una discussione. È quanto ci racconta Luca nel brano che abbiamo ascoltato e che questa sera vogliamo meditare. Scrive l’evangelista: “E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande”.
L’argomento della discussione si stupisce. C’è un fortissimo contrasto tra questa discussione che si accende tra i discepoli e ciò che è appena accaduto. Da una parte l’offerta della vita compiuta dal Signore con la sua consegna nelle mani degli uomini attraverso il tradimento di Giuda, e dall’altra la preoccupazione che i discepoli hanno di stabilire chi tra loro va considerato il più grande. Il Signore si sta preparando alla passione e i suoi discepoli si preoccupano delle gerarchie; egli si sta abbassando fino alla morte e alla morte di croce, ed essi vogliono capire chi tra loro merita il posto più alto.
Con la sua infinità bontà e pazienza, senza tradire una comprensibile amarezza, Gesù dice loro: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve”.
Si scontrano qui due modi di pensare: quello del mondo e quello del Regno di Dio, che Gesù è venuto a inaugurare. Chi sono i grandi secondo il mondo? Chi sono i potenti della terra? Sono coloro che governano le nazioni con un potere che ha la forma del dominio. Sono coloro che, in forza della loro posizione e dell’autorità che esercitano, operano come padroni della vita degli altri, considerandoli sudditi e subalterni, guardandoli dall’alto e ritenendo di poter disporre a proprio piacimento delle loro vite. Sono coloro che hanno fatto dell’orgoglio il principio ispiratore della loro vita e del vanto il sentimento da coltivare. La violenza diventa facilmente lo strumento del potere di cui si sentono depositari. Costoro, dice Gesù ai suoi discepoli non senza un’amara ironia, hanno poi piacere di farsi chiamare benefattori e costruiscono ad arte un raffinato sistema di autolegittimazione.
Tra voi non sarà così, dice Gesù ai suoi discepoli. Chi di voi sarà chiamato ad esercitare il compito dell’autorità, in tutte le sue forme, chi sarà posto in alto di fronte a tutti per abbracciare con lo sguardo la comunità di coloro che formeranno la mia Chiesa, dovrà considerarsi l’ultimo, il più piccolo, il più giovane e dovrà porsi di fronte a tutti, lui che è chiamato al governo, come colui che serve. Non dunque il dominio sugli altri, dall’alto verso il basso, ma il servizio degli altri, dal basso verso l’alto.
E qui Gesù presenta ai discepoli se stesso e li invita a considerare il suo esempio. Dice: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”.
Chiunque partecipava in quel tempo ad una cena in famiglia, sapeva chiaramente distinguere il padrone dal servo. Il primo stava seduto e veniva servito, il secondo stava in piedi a fianco del padrone e lo serviva. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” – dice Gesù. Aveva forse l’abitudine di servire i suoi quando ci si trovava a tavola? L’aveva fatto forse in occasione di quell’ultima cena? Il Vangelo di Giovanni ci ricorda che in quell’occasione egli si alzò da tavola, si tolse la tunica, si cinse un grembiule, versò acqua in un catino e si mise a lavare i piedi dei suoi discepoli (Gv 13,1ss). Il gesto del servo, l’ultimo della scala sociale. Ma qui, nel racconto di Luca, forse Gesù sta invitando i suoi a considerare ciò che ha appena compiuto, cioè il dono del suo corpo e del suo sangue e la mite accettazione del tradimento di Giuda. Egli è in mezzo a loro così, con un cuore che perdona e desidera porre tutto a loro servizio. Nel terzo annuncio che Gesù fa della sua passione nel Vangelo secondo Marco troviamo questa espressione molto illuminante: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Come discepoli del Signore siamo dunque chiamati a servire e non a farci servire. Questo vale anzitutto per la Chiesa nel suo rapporto con il mondo. In un bel passaggio della Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II si legge: “Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa. Essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito (GS 3). E ancora, in un altro passo: “Niente sta più a cuore alla Chiesa che di servire al bene di tutti” (Gs 42). Chi serve non ricerca nulla per sé, non coltiva alcun interessa nascosto, non pretende nessuna ricompensa, non va in cerca di riconoscimenti e o di privilegi. Ritiene che tutto ciò che fa per il bene del suo prossimo sia semplicemente il suo dovere. È un servitore e questo gli è chiesto dal suo Signore, che è il Cristo crocifisso e risorto, Redentore del mondo.
Servire sarà anche il verbo che andrà declinato all’interno della Chiesa, nelle relazioni che qualificano i discepoli del Signore. La carità, che il legame perfetto, domanda infatti che ci ponga a servizio gli uni degli altri. Chi poi è in alto, perché chiamato a esercitare l’autorità, sia come il più basso, l’ultimo e il servo di tutti, perché questo ha fatto il Signore nell’ultima cena e sul calvario. “Vi ho dato un esempio – aveva detto lavando i piedi ai suoi discepoli – perché come ho fatto io, facciate anche voi”. E certo ha il suo significato che il sommo pontefice della Chiesa cattolica sia definito dalla tradizione servus servorum Dei, cioè il servo dei servi di Dio. La condizione indispensabile per porsi a servizio degli altri è l’umiltà, che è coraggiosa rinuncia se stessi e a ogni pretesa di dominio sugli altri. Dice bene san Paolo, scrivendo ai Corinzi: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù (2Cor 4,5) e poco prima aveva scritto: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24).
Servitori di tutti per amore di Cristo, non padroni delle persone e nemmeno della loro fede, ma collaboratori della loro gioia. Questa è la regola di vita che il Signore Gesù ha lasciato ai suoi discepoli nell’ultima sua cena, offrendo loro il suo esempio. È la regola che egli consegna oggi anche a noi, chiedendoci di essere anche in questo modo tessitori di speranza.
+ Pierantonio Tremolada
