Festa dei Santi Patroni

Brescia, Chiesa dei Santi Faustino e Giovita | Lunedì 15 febbraio 2021

 

 

Quando nell’anno 1438 i santi patroni Faustino e Giovita apparvero sui bastioni delle mura di Brescia per compiere la loro prodigiosa opera di difesa, la città era sotto assedio. La popolazione era ormai allo stremo, provata dalla fame e impaurita dai devastanti colpi di cannone. Una milizia senza scrupoli, assoldata per imporre una volontà politica opposta a quella liberamente espressa dalla cittadinanza, si apprestava a compiere l’assalto finale. La provvidenziale assistenza celeste impedì che questo avvenisse e Brescia fu risparmiata.

Il ricordo annuale di questo evento ravviva la gratitudine per una protezione che affonda le sue radici nel mistero paterno di Dio e rafforza i vincoli di appartenenza ad una città fiera e coraggiosa. Quest’anno un simile ricordo e la sua solenne celebrazione acquistano per noi una risonanza particolare. Ci sentiamo molto vicini all’esperienza di quanti vissero quel momento cruciale, perché qualcosa di analogo sta accadendo anche a noi.

Da quasi un anno ormai, potremmo dire che la nostra città è tornata sotto assedio. Non è la sola a vivere questo evento drammatico, ma certo è tra quelle che più sono state colpite. La pandemia, che si è abbattuta sull’umanità intera, ha provocato tra noi molti lutti e ha seminato paura e sofferenza. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato di ritrovarsi a vivere la festa dei Santi Patroni con le attuali limitazioni e soprattutto con gli attuali sentimenti.

I mesi che sono trascorsi ci hanno visto lottare con determinazione e con coraggio, in particolare nel tempo della prima ondata dei contagi. La situazione, purtroppo, non è risolta. Dobbiamo ancora misurarci con l’incertezza e la preoccupazione. Siamo grati ai ricercatori che con encomiabile zelo e con felice intuizione sono riusciti in poco tempo a scoprire un vaccino capace di contrastare il virus. Rimaniamo invece piuttosto disorientati e rammaricati di fronte all’impressione che suscita l’attuale campagna di somministrazione del vaccino: non ci è del tutto estraneo il timore che logiche di potere e interessi privati o di gruppi stiano condizionando a livello mondiale un’opera che dovrebbe essere unicamente ispirata dal principio del bene comune e del diritto dei più deboli. Non vogliamo, tuttavia, che questa spiacevole sensazione offuschi il merito di molte persone onestamente e generosamente impegnate in un’opera di assistenza degna della massima considerazione.

Un sentimento, in ogni caso, mi sembra dominare in questo momento su tutti gli altri: quello della stanchezza. Siamo molto provati. I lunghi mesi, le continue attenzioni, le pesanti limitazioni, la paura sempre incombente del contagio, una comunicazione martellante e assillante stanno producendo in tutti noi un effetto di logoramento. Ci troviamo a vivere – come detto – un’esperienza molto simile a quella di un assedio.

C’è dunque bisogno di resistere. Dovessimo scegliere un termine che indentifichi chiaramente il compito di ognuno di noi e di tutti insieme a fronte della situazione attuale, credo potremmo ritrovarci d’accordo nel dire: «Sì, dobbiamo resistere!»

Vorrei tuttavia che meditassimo un momento su questa parola. Ci sono infatti diversi modi di resistere. Il primo è sostanzialmente passivo e consiste nell’attendere che cessi la tempesta, mettendosi il più possibile al riparo, procurandosi un rifugio nel quale isolarsi per non venire travolti, senza troppo preoccuparsi di ciò che succede agli altri. Un secondo modo, più attivo, è quello di contrastare per quanto possibile ciò che sta succedendo, ma pensando sostanzialmente a sé, facendo fronte alla situazione per limitarne i danni e contenerne gli effetti negativi sulla propria persona e sui propri beni. Un terzo modo di resistere è decisamente negativo e consiste nello sfruttare l’occasione per approfittare della debolezza altrui, potendo contare su una posizione di forza favorita dalle circostanze. È il caso di chi si sta arricchendo in questo momento di generale sofferenza. Vi è infine un ultimo modo di resistere ed è quello di rimanere fermi nella decisione onesta e sincera di fare del bene, rispondendo insieme ai bisogni di tutti e trasformando la situazione critica in un’occasione per rendere più generosa e tenace la propria volontà.

Quest’ultima forma di resistenza, che assume l’aspetto di una vera e propria virtù, nella prospettiva cristiana prende il nome di perseveranza. Ecco, io credo che questo debba essere il tempo della perseveranza, cioè della resistenza virtuosa, animata dalla speranza, una resistenza che si coniuga con la fede nella Provvidenza.

Perseverare è resistere dando valore al tempo della fatica e non soltanto attendendo che tutto finisca presto; è impegnarsi a lottare per il conseguimento del bene anche quando in primo piano vi è il male, senza farsi vincere dalla stanchezza e dallo sconforto; è credere che anche dal male possa scaturire del bene e operare con intelligenza e decisione affinché questo avvenga, compiendo il miracolo di un riscatto impensabile agli occhi del mondo. La perseveranza include la pazienza: è la capacità di sopportare senza andare in collera, di reggere il peso che ci è posto sulle spalle anche quando sembra superare le nostre forze, e saremmo perciò tentati di abbandonare tutto o di cedere a compromessi che la coscienza non può accettare.

Due sono dunque i versanti della perseveranza: essa è resistenza alle circostanze avverse, con la fatica che esse provocano, ma è anche resistenza alla tentazione di cedere al male, di approfittare della situazione o di fuggire pensando solo a se stessi. Potremmo dire che quella resistenza virtuosa ha una dimensione etica, come ha dimostrato la vicenda del nostro popolo in diversi passaggi della sua storia: è infatti resistenza contro l’ingiustizia subita ma anche resistenza contro la tentazione di risponde all’ingiustizia con l’ingiustizia, al crimine con la vendetta, al pericolo con la fuga o la complicità, alla prospettiva del sacrificio con il tradimento o la corruzione.

Alla base della perseveranza vi è poi la coscienza del limite, cioè la consapevolezza della nostra vulnerabilità.  Scrive il cardinale C. M. Martini: “Possiamo essere forti, fermi, coraggiosi, resistenti solo a partire dal fatto che siamo fragili. Abbiamo dentro di noi un fondo di timore, di paura, un senso di disagio e di difficoltà, per quanto ci sforziamo di nasconderlo … Il primo gradino della fortezza cristiana non è stringere i denti ma prendere umilmente coscienza della propria debolezza”.

Là dove c’è vulnerabilità è inevitabile che la vita assuma la forma della fatica, della sofferenza, della paura e dell’incertezza. Quando il livello di simili esperienze si fa molto alto, a causa di circostanze particolarmente pesanti – come sta accadendo per noi in questo momento – ecco arrivare il tempo della prova.

La perseveranza ci appare allora come la virtù con la quale si risponde alla sfida della vita quando vi fa irruzione la prova. Come dice la parola stessa, la prova è in realtà un’occasione di verifica. Nel linguaggio tecnico, di un materiale o di un prodotto si dice che “viene testato”, cioè messo alla prova, per capire se e fino a che punto resiste. Qualcosa di analogo, ma in senso decisamente più alto, avviene nell’esperienza umana. La prova, che deriva dalla vulnerabilità, dimostra di che cosa l’uomo è capace, a che punto è del suo cammino, se e come la sua volontà appare in grado di rimanere fedele alla sua vocazione originaria, quella cioè di operare il bene in ogni circostanza.

Ecco dunque ciò che accade quando la perseveranza prende posto in un cuore umano: le prove della vita acquistano il loro vero significato e vengono condotte al loro giusto esito. La resistenza virtuosa produce così i suoi buoni frutti: libera dalla presunzione e dall’arroganza, genera umiltà e gentilezza, consente di dare il giusto valore alle cose, rende più compresivi e benevoli verso gli altri, accresce la compassione verso i più deboli, smaschera l’inconsistenza di tante pretese e illusioni, rafforza una volontà afflosciata nella ricerca mediocre della pura soddisfazione individuale. In questo modo la vita viene purificata e indirizzata più decisamente verso i vertici della sua autenticità.

«Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (Lc 21,19) – dice il Signore Gesù ai suoi discepoli, preparandoli alle prove che dovranno affrontare. Nel suo linguaggio vivace e incisivo papa Francesco scrive: «La vita cristiana non è un carnevale, non è festa e gioia continua. Ha dei momenti bellissimi e dei momenti brutti, dei momenti di tiepidezza, di distacco, dove tutto sembra perdere il suo senso. È il momento della desolazione. In questo momento occorre essere perseveranti».

Il tempo che stiamo vivendo sembra proprio avere questa caratteristica: è tempo di prova e quindi di perseveranza, domanda pazienza e fortezza ma insieme si offre come occasione di maturazione. Nel crogiolo di una sofferenza accolta in piena coscienza e non semplicemente subita, la personalità di ciascuno di noi e la stessa società potranno diventare migliori, più forti, più vere, più mature.

Una domanda tuttavia mi sorge spontanea, alla quale vorrei provare a dare risposta concludendo questa mia riflessione: «Che cosa ci aiuterà ad essere perseveranti? Che cosa renderà più decisa e ferma la nostra virtuosa resistenza in questo tempo di prova?

Credo anzitutto il senso di responsabilità e quindi l’esempio di persone affidabili là dove si esercita il compito dell’autorità. Il tempo della prova domanda serietà, spirito di servizio, retta coscienza, fedeltà al proprio dovere, umile sapienza. In ognuno che fa parte della società è vivo più che mai in tempi come questi il desiderio di poter contare su figure di alto profilo etico nei luoghi di maggiore responsabilità sociale, là dove, a livello nazionale e locale, si prendono decisioni importanti, persone nelle quali si fondano coscienziosità e competenza, bontà d’animo e intelligenza, lungimiranza e concretezza. Pensando in particolare alle giovani generazioni, questa testimonianza esemplare appare assolutamente necessaria. Oltre ad offrire loro garanzia per il futuro, essa consente loro di avere dei soggetti ai quali guardare con fiducia, nei quali potersi in qualche modo specchiare, vedendovi incarnati quei valori di autenticità cui naturalmente aspira il loro cuore.

Ad essere perseveranti ci aiuterà poi il senso di fraternità, il sostegno che nasce dal riconoscimento della dignità di tutti. Se quello dell’accoglienza e del rispetto è il primo passo verso la fraternità, il passo successivo sarà quello della solidarietà affettuosa, che papa Francesco chiama “amicizia sociale”. Essa dà piena sostanza alla fraternità umana, la cui sorgente è Dio stesso, creatore e redentore. Là dove i legami sono profondi e sinceri; là dove non si incrociano sguardi cattivi e risentiti ma amorevoli e sereni; là dove regna la benevolenza intesa come impegno costante a voler bene e a fare il bene; là dove si coltiva da parte di tutti la nobile virtù della gentilezza, là si riuscirà meglio a resistere nel tempo della prova.

Infine, sarà di grande aiuto alla perseveranza il guardare avanti con speranza, preparando fin d’ora ciò che sarà domani, a cominciare dal tempo che immediatamente seguirà la fine di questa pandemia. Capire bene cosa sta succedendo in questo momento per farsi carico delle conseguenze che dovremo affrontare dopo l’emergenza è un modo per dare corpo alla speranza. Essa domanda una lettura sapiente del presente e una lucida progettualità per il futuro. Ci sono ferite profonde di cui farsi carico sin d’ora, non solo a livello sanitario ma anche economico e, ancora di più, a livello psicologico e spirituale. La questione educativa, per esempio, si sta imponendo in tutta la sua gravità.

Nei mesi che abbiamo davanti, questo sarà un compito primario, che tuttavia andrà assunto con lungimiranza, dando all’azione di risanamento la forma di un’opera di ampio respiro, un disegno sapiente disteso nel tempo, il cui obiettivo non potrà che essere il bene dell’attuale generazione e delle generazioni future. Quando lo sguardo si allarga verso un orizzonte aperto e luminoso, c’è ragione per resistere. La perseveranza infatti si nutre della speranza ed è capace di dare alla responsabilità sociale una forma autenticamente generativa, nel presente per il futuro.

Di questo abbiamo bisogno, mentre ancora camminiamo nell’incertezza e nella fatica. Questo chiediamo oggi al Signore nostro Dio per intercessione dei santi Faustino e Giovita: che la nostra resistenza sia virtuosa, che sia tenace ma anche feconda, che porti in sé il germe di un futuro migliore e sia occasione per una salutare purificazione dei cuori. In questo assedio ancora pressante, che la virtù della perseveranza ci impedisce di considerare semplicemente una disgrazia, la presenza amica dei nostri Santi Patroni sia anche per noi, come già lo fu un tempo, difesa e baluardo contro ogni potere distruttivo. Sia anche promessa e garanzia di pace e di libertà per la nostra città e la nostra terra, nel tempo presente e negli anni a venire. Per la loro amorevole intercessione, la benedizione del Signore sempre ci accompagni e sia luce di grazia per il nostro cammino.