S. Messa ingresso Vescovo Pierantonio

Cattedrale di Brescia, 8 ottobre 2017

Carissimi tutti
il momento che stiamo vivendo è uno quelli che segnano la vita e rimangono incisi per sempre. Questo almeno per me, ma credo non solo. Vorrei che lo vivessimo con fiducia e gratitudine, consegnandoci all’infinta bontà di Dio e accogliendo il dono che lui stesso ci fa. Iniziare insieme e farlo nel modo più vero è infatti grazia sua.
Mettiamoci allora anzitutto in ascolto della Parola di Dio, che la liturgia oggi ci propone, e lasciamoci illuminare. Nelle letture che abbiamo ascoltato c’è un’immagine molto bella che funge da filo conduttore tra ciò che dice il profeta nella prima lettura e ciò che dice Gesù nel brano del Vangelo. Il tono è in entrambi i casi piuttosto severo, ma noi vorremmo concentrarci sulla realtà di cui qui si parla, per la quale traspare in entrambi i casi un grande affetto e un’alta considerazione. Questa realtà è la vigna del Signore. “Voglio cantare per il mio diletto – dice Isaia – il mio cantico d’amore per la sua vigna”. La vigna non è la vite ma piuttosto l’ambiente più ampio in cui la vite si trova e viene coltivata. “Il mio diletto possedeva una vigna – dice sempre Isaia – sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgomberata dei sassi e vi aveva piantato viti pregiate. In mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino”. Colpisce qui la cura con cui il padrone della vigna opera. Tutto è compiuto in vista del frutto che la vite produrrà: la scelta di un colle fertile, il terreno ripulito e dissodato, la torre di sorveglianza, il tino per la spremitura. E il frutto, tanto prezioso, è quell’uva da cui si ricaverà il vino, simbolo di gioia e di festa, il vino che – come dice il Salmo “allieta il cuore dell’uomo” (Sal 104,15),. Frutto prezioso e ogni anno tanto atteso, come sanno bene gli amici di Franciacorta, ma non solo.
Ma perché usare quest’immagine? Cosa sta al di là del simbolo della vigna? A che cosa si sta pensando? La risposta non è difficile, perché ci viene dalla stessa Parola di Dio. Potremmo formularla così: la vigna del Signore è il suo popolo che vive nel mondo. Nella prospettiva del Nuovo Testamento essa è la Chiesa di Cristo che, senza nulla togliere e senza sostituirsi all’Israele santo della prima alleanza, si presenta al mondo come popolo del Signore sorto dal mistero pasquale, cioè dalla morte e risurrezione di Gesù. Essa è chiamata a portare frutto a favore dell’intera umanità, offrendole la potenza di vita che viene dal Vangelo, vino che allieta il cuore, cioè sorgente di pace e di speranza.
Di questa Chiesa universale, una, santa, cattolica e apostolica, la Chiesa di Brescia rappresenta una porzione eletta, insieme a tutte le altre diffuse nel mondo. È il popolo di Dio che vive in queste terre, in questa città, in queste valli, sulle rive di questi laghi, nella grande pianura. Quale frutto si aspetta dunque il Signore da questa sua vigna eletta? Che cosa le domanda in questo passaggio della sua storia, cioè all’arrivo di un nuovo vescovo?
Anzitutto – oso rispondere – il Signore si aspetta che si prosegua nel solco sinora tracciato. Siamo la generazione che, ultima in ordine di tempo, è chiamata a dare il suo contributo alla grande tradizione che da S. Anatalo discende fino a noi. Ci precede un fiume di bene, una folla immensa di testimoni della fede, di cui sono espressione soprattutto i santi e beati della terra bresciana, uomini e donne dalla fede tenace e solida, intelligente e operosa.
Per quanto riguarda me, credo domandi in particolare che io raccolga il testimone del magistero più recente dei vescovi di questa Chiesa ed in particolare del vescovo Luciano. A lui vorrei esplicitamente collegarmi citando qui un passaggio del testo che lui stesso mi ha segnalato come particolarmente espressivo del suo ministero episcopale, frutto di un intenso lavoro da lui condotto insieme al Consiglio Pastorale diocesano, dal titolo: “Missionari del Vangelo della gioia. Linee per un progetto pastorale missionario”. Vi si legge: “La missione ecclesiale implica il fare attenzione a quella fame e sete profonda dell’uomo che è fame di senso di amore, di senso di speranza, di Dio … Dimostrare che nella fede cristiana la vita può essere vissuta con serenità e speranza, pur tra le fatiche, i dolori e le prove che essa ci riserva” (p. 44). Mi trovo molto in sintonia con queste parole e volentieri le faccio mie guardando al cammino che stiamo iniziando.
Vorrei provare a declinarle per come io le sento e per come desidererei che le attuassimo insieme. Vorrei rifarmi a un testo a me molto caro di san Giovanni Paolo II con il quale egli ha voluto inaugurare l’ingresso della Chiesa nel nuovo millennio. In questo testo, la Novo Millennio Ineunte, egli ha illustrato alcune linee guida per il cammino della Chiesa nel passaggio epocale al terzo millennio del Cristianesimo. Per come io le ho intese, queste linee possono essere ricondotte a due: 1) contemplare e rivelare al mondo il volto di Cristo; 2) tendere insieme alla santità, dando così compimento alla missione della Chiesa. Il volto di Cristo e la santità della Chiesa: credo che questi debbano essere i cardini della nostra missione ecclesiale oggi.
Così si legge nella Novo Millennio Ineunte: “Vogliamo vedere Gesù » (Gv 12,21). Questa è la richiesta fatta all’apostolo Filippo da alcuni Greci. Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di parlare di Cristo, ma in certo senso di farlo loro vedere”. Contemplare e rivelare il volto di Cristo: ecco il nostro compito. Il volto rinvia all’identità segreta del soggetto e la rende familiare. Il volto della madre per un bimbo è tutto il suo mondo, è garanzia di sicurezza e di vita. Il suo sorriso è il motivo della sua felicità. Questo è per noi il volto di Cristo, volto del Signore crocifisso e risorto, rivelazione inaspettata del mistero di Dio, che è misericordia infinita, mitezza e umiltà. La Chiesa vive di questo sguardo e in questo sguardo. La sua missione è farsi trasparenza di questa forza di bene che accoglie, sostiene, conforta, risana, riscatta. Vorrei tanto che alla base di tutta la nostra azione di Chiesa ci fosse la contemplazione del volto amabile di Gesù, il nostro grande Dio e salvatore.
Così dal volto di Cristo si passerà, quasi senza accorgersi, al volto degli uomini e la nostra diventerà la “pastorale dei volti”. Acquisterà la forma della cura delle persone per quello che sono, ciascuna con la sua identità. La vita non è mai generica e quindi nemmeno potrà esserlo l’amore per la vita: non esiste, infatti, la vita come tale, esiste il volto di ciascuno che vive. C’è bisogno di una pastorale “generativa”, che faccia sentire a ciascuno la carica positiva dell’esistenza quotidiana. Su questo si deve concentrare tutto ciò che la Chiesa fa. A partire da qui dovremo guardare e forse riconsiderare tutte le nostre iniziative e le nostre strutture; e probabilmente, nel farlo, dovremo essere anche piuttosto coraggiosi. La domanda guida sarà: in che modo tutto questo è Vangelo di Cristo? In che misura sta consentendo ad ogni persona, a lei con il suo volto, di incontrare l’amore di Dio che le dona gioia e speranza?
Il Vangelo così annunciato è la nostra risposta alle grandi sfide del momento attuale, di cui la prima è la giusta rivendicazione della libertà. Nessuno deve sentirsi obbligato a fare ciò di cui non è convinto, ciò che non ha scelto, ciò che sente come imposizione. Ma oggi il punto sta proprio qui: che si fatica a scegliere e a decidere. La nostra società è diventata incredibilmente fluida. Tutto è in continuo movimento. Ma la vita domanda scelte e decisioni, punti fermi su cui edificare qualcosa che non venga travolto dal tempo e non rincorra semplicemente le emozioni. La pastorale dei volti andrà pensata anche così, come aiuto a vivere la libertà, come un affiancarsi amorevole e autorevole che consenta di affrontare insieme l’avventura seria della vita.
C’è poi la triplice sfida dell’insicurezza, della solitudine e dell’indifferenza. Tre esperienze che mettono pericolosamente a rischio la qualità della vita. La loro radice è comune: in Evangelii Gaudium papa Francesco la identifica con “l’individualismo triste di un cuore comodo e avaro” (EG 2). Questo sì ci deve preoccupare: il fatto che – almeno nell’Occidente benestante e piuttosto orgoglioso – stiamo scivolando dolcemente, senza che ce ne accorgiamo, verso una diminuzione della gioia di vivere. L’esistenza sta smarrendo la sua profondità e il senso di mistero che la avvolge. Un individualismo triste, assecondato dalla logica del consumo e dell’enfasi della tecnologia, sta rendendo più grigio il nostro orizzonte. Ma non possiamo certo consegnare le grandi domande della nostra coscienza al mercato e alla tecnica. C’è un umanesimo nobile da riscoprire, la cui verità è riconosciuta delle grandi anime, sia di alta cultura che di semplici origini. Un umanesimo che si esprime anzitutto nel riconoscimento del valore delle relazioni e dei sentimenti del cuore. Attraverso di essi la terra si riprenderà il suo cielo. Occorrerà ritornare alle grandi parole di civiltà che per noi attingono al mistero santo di Dio e che la tradizione non solo cristiana ha qualificato come virtù: rispetto, giustizia, onestà, lealtà, solidarietà, mitezza, magnanimità, fermezza, pazienza, dominio di sé. Occorrerà inoltre riscoprire la naturale bellezza dei grandi gesti con cui le buone relazioni si esprimono, gesti di simpatia, di amicizia, di affetto: la stretta di mano cordiale, l’abbraccio affettuoso, il sorriso spontaneo, lo sguardo amico, la vicinanza silenziosa. Occorrerà, infine, rilanciare il gusto del pensare insieme, del valutare le cose senza pregiudizi, dell’unire le energie facendo convergere i diversi punti di vista, cercando insieme il bene di tutti. Proprio come ci ha esortato a fare san Paolo nella seconda lettura che abbiamo ascoltato: “Tutto quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8).
Si apre così la seconda via della nostra azione pastorale, quella che punta ad una testimonianza forte e chiara della santità della Chiesa. “Non esito a dire – scrive Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte – che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità (Novo Millennio ineunte, 30). La santità è trasparenza sulla terra della bellezza di Dio nei cieli, è manifestazione tra gli uomini della sua gloria, è perfezione di bene e splendore di grazia. Di questo la Chiesa è chiamata ad essere segno, dando così compimento alla sua missione. Quella Chiesa che Paolo VI ha tanto amato e di cui ebbe a dire: “La Chiesa! È questo l’anelito profondo di tutta la nostra vita, il sospiro incessante, intrecciato di passione e di preghiera, di questi anni di pontificato .. Ad essa il nostro comune amore, i nostri pensieri, il nostro servizio perché la Chiesa è il disegno visibile dell’amore di Dio per l’umanità” (Discorso ai cardinali, 22 giugno 1973). Potessimo avere anche noi questa visione della Chiesa, questo senso del suo mistero e della sua grandezza e insieme della sua missione. Ma Chiesa sarà missionaria nella misura in cui sarà veramente se stessa, fedele alla sua vocazione alla santità. Dovrà presentarsi al mondo con quello che è e che fa e non semplicemente con quello che dice. Occorre mostrare con le opere quello che il Vangelo annuncia, perché – come ricorda papa Francesco – “la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione” (EG 14).
E santità della Chiesa, alla luce della Parola di Dio e del recente magistero dei nostri grandi papi, significa concretamente questo: lotta alla mondanità e coltivazione di un’alta qualità evangelica dell’azione pastorale. La Chiesa sa che deve convertirsi ogni giorno, per dire no alla ricerca della gloria umana, del prestigio sociale, dell’interesse privato, del benessere personale; e ancora di più per dire no a tutte le forme della corruzione e dell’ingiustizia, a tutto ciò che può ferire la dignità delle persone o comprometterne la felicità. Ma poi la Chiesa, oggi più che mai, sa che deve puntare sugli elementi costitutivi della sua identità, che sono l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la vita sacramentale, la comunione tra fratelli. Sono queste le colonne su cui poggiava la prima comunità cristiana di Gerusalemme (cfr. At 2,42-47). Queste dunque saranno le credenziali della Chiesa, riscoperte in tutta la loro bellezza. Dovremo cominciare a vivere con maggiore intensità e consapevolezza quel che abbiamo vissuto sinora in modo molto, forse troppo, naturale. La svolta epocale ci impone di non dare più nulla per scontato: l’Eucaristia domenicale, il matrimonio cristiano, la preghiera dei ragazzi e degli adulti, la regole della morale cristiana, le feste liturgiche, sono tutte realtà per noi irrinunciabili che oggi hanno bisogno di un ritorno alle loro motivazioni profonde ma soprattutto domandano di essere sperimentate nella loro autentica ricchezza. Anche le tradizioni popolari andranno tutte rivisitate con l’intelligenza di una fede fresca e più consapevole. Dovremo fare discernimento pastorale, mettendoci in ascolto di quanto lo Spirito santo dice oggi alla sua Chiesa. Sono convinto che in questo sarà di grande aiuto l’ascolto attento e costante della Parola di Dio, di cui è stato maestro per me e per molti il cardinale C. M. Martini. Ritengo inoltre che questo discernimento vada compiuto insieme, nella forma di una reale sinodalità ecclesiale, le cui modalità di attuazione andranno sempre insieme ricercate.
A tutti coloro che in questa Chiesa di Brescia stanno operando con impegno e dedizione, ai diaconi, ai consacrati e alle consacrate, ai genitori, agli educatori che operano nel mondo della scuola, e nel mondo dello sport, ai catechisti e alle catechiste, agli animatori liturgici, agli operatori del mondo della salute e della cultura vorrei dire: mi siete tutti molto cari; avremo modo di confrontarci e di decidere insieme come operare sempre meglio nella direzione che ci sta a cuore. Una parola più specifica vorrei però rivolgere a tutti, guardando ai giovani e ai più deboli.
Pensando ai giovani e ai ragazzi vorrei dire a tutti che solo insieme a loro sapremo leggere il momento presente e solo garantendo il loro futuro noi adulti onoreremo il compito che ci è stato affidato. Questo vale anche per la Chiesa. Il desiderio di autenticità che è tipico dei giovani, la ricerca del bello e del vero che anima il loro cuore al di là di tante apparenze, il desiderio di incontrare persone affidabili con cui confrontarsi e a cui affidarsi, tracciano le linee di quella che dovrà essere anche la nostra azione pastorale. Il volto di Cristo e la santità della Chiesa – svelati da veri testimoni – hanno sempre affasciato le giovani generazioni. E ai giovani vorrei dire che do loro appuntamento, che avrò piacere di incontrarli, di ascoltarli e di condividere con loro ciò che ha conquistato il mio cuore e mi rende felice.
Pensando alle persone più deboli, ai poveri e ai sofferenti, a quelli tra di noi che sentono maggiormente il peso della vita, vorrei dire a tutti che essi sono il nostro tesoro, che dobbiamo inchinarci davanti a loro, prima ancora di servirli con assoluta dedizione. Nulla dovrà venire prima di questa carità operosa a favore dei più poveri. Non saremo ingenui nel nostro operare, perché la carità vera domanda sempre intelligenza e vigilanza; ma il nostro cuore sarà sempre caldo, il nostro sguardo sempre amico, la nostra mano sempre tesa.
A voi, cari sacerdoti e fratelli nel ministero pastorale, vorrei far sentire tutto il mio affetto e la stima per la vocazione che avete ricevuto dal Signore. E vorrei dirvi che noi siamo una cosa sola: il vescovo e il suo presbiterio. Camminiamo dunque insieme e amiamoci gli uni gli altri. Non siamo capitani coraggiosi, chiamati a compiere in solitaria la nostra missione. Siamo invece pastori del popolo di Dio che abita queste terre, chiamati a guidare le singole comunità e istituzioni in quella piena reciproca comunione di cui il vescovo è insieme servitore e garante. Non dimenticate che la prima testimonianza che il popolo di Dio si aspetta dai suoi sacerdoti è l’amore reciproco. La seconda è la carità pastorale, fatta di servizio generoso alla gente ma anche di capacità di promuovere la corresponsabilità pastorale, valorizzando nelle comunità il contributo di ciascuno. Ci attendono decisioni importanti sul versante pastorale, che chiedono di proseguire nel solco già aperto. Prepariamoci a prenderle insieme, in un confronto sinodale, schietto e fraterno.
Il mondo intorno a noi sta cambiando. E molto velocemente. Stiamo assistendo ad una trasformazione epocale il cui dato più evidente è la mescolanza delle popolazioni. Se molti temono il conflitto di civiltà noi auspichiamo l’incontro delle culture e faremo di tutto per promuoverlo e coltivarlo, per costruire quella che don Tonino Bello chiamava la “convivialità delle differenze”. Alle diverse confessioni cristiane qui autorevolmente rappresentate vorrei dire con cuore aperto che oggi più che mai noi siamo fratelli nella fede e che così dobbiamo presentarci al mondo. A tutti coloro che professano altre religioni, con profondo rispetto, rivolgo l’invito a cercare insieme la strada di una forte testimonianza del mistero di Dio, della sua santità e della sua misericordia. Il mondo ha bisogno di uomini veramente religiosi, autentici cercatori di Dio. Il nostro comune nemico è una visione della vita senza profondità e senza eternità, dove l’uomo è abbandonato a se stesso e i grandi valori hanno perso diritto di cittadinanza.
Alle autorità civili che in questo momento mi onorano della loro presenza e a tutti i rappresentanti delle istituzioni bresciane mi rivolgo con sentimenti di viva simpatia e insieme di rispettosa deferenza, esprimendo loro il mio più sincero desiderio di collaborazione. Le sfide di questo momento riguardano tutti. Chi ha responsabilità a qualsiasi livello lo sa bene. Sarà molto opportuno proseguire nella direzione già aperta della promozione del dialogo, della condivisione del pensiero, della attivazione di sinergie: tutto questo senza confondere i ruoli, salvaguardando da un lato il fondamentale principio della laicità dello stato, dall’altro l’irrinunciabile dimensione civile della fede cristiana. Saremo sempre ben felici di offrire il nostro contributo di credenti all’edificazione di quella che Paolo VI chiamava la civiltà dell’amore.
Mi resta un’ultima cosa da dire. Parlando di se stesso ai cristiani di Ippona il vescovo Agostino disse di se stesso: “Con voi cristiano, per voi vescovo”. È quanto vorrei ripetere anch’io a tutti voi. Sono convinto che la fede in Cristo e il battesimo ricevuto è ciò che abbiamo di più prezioso. Tuttavia, vorrei aggiungere anche questo: che cioè da oggi io sono uno di voi. Sono e vorrei essere un bresciano tra i bresciani. Vengo da Milano e porto con me una storia, una tradizione, un patrimonio di bene che mi ha plasmato. Permettete che dica che sono fiero di appartenere alla Chiesa da cui provengo. Ma da oggi io sono qui, pastore del popolo di Dio che è in questa diocesi e in questa città. Da subito io cercherò – e un poco già l’ho fatto – di immergermi in questo fiume di grazia che mi precede. Sento che una Chiesa mi accoglie dentro una grande storia e le sono grato per la fiducia che già mi dimostra. Vorrei dirle che questa fiducia è sin d’ora ricambiata da un affetto sincero e dal desiderio di fare della mia vita, di questi anni della sua ultima stagione, “un’offerta sull’altare della vostra fede” – come dice bene san Paolo (cfr. 1Tm 4,6)). La vita di un vescovo appartiene al Signore e al popolo di Dio che è chiamato a servire. E così io vorrei che fosse. Altro non ho chiesto al Signore mentre si avvicinava questo giorno. So bene che il desiderio non basta. Sarà la vita di ogni giorno a trasformarlo in vero amore. Anche gli errori e le debolezze, che da parte mia so bene non mancheranno, contribuiranno a renderlo tale, se vivremo tutto con fede e in reciproca comprensione. Abbiamo tutti bisogno della misericordia di Dio! A lui dunque ci affidiamo, sicuri che con il suo aiuto e con la buona volontà di tutti potremo scrivere qualche buona pagina di storia.
Dio vi benedica e si degni di benedire anche me insieme con voi.

Nel nome del Signore, auguro a tutti buon cammino.

+ Pierantonio
Per grazia di Dio vescovo di Brescia

08/10/2017