Veglia delle Palme 2023

Cattedrale | Sabato 1 aprile 2023
“Che farò di Gesù chiamato il Cristo?”

“Ma allora che farò di Gesù chiamato il Cristo?”. Questa frase pronunciata da Ponzio Pilato, il governatore e procuratore romano della provincia di Giudea, non suona bene. “Che cosa farò di Gesù?” … Che un uomo a cui era conferita piena autorità di giudizio pronunci una frase di questo genere, con la quale lascia in sospeso il destino di un uomo e addirittura sembra chiedere un suggerimento alla folla in subbuglio, è del tutto fuori luogo. In realtà queste parole di Pilato sono frutto di una situazione estremamente imbarazzante, che si è venuta a creare al di là delle sue intenzioni e che domanda di essere almeno brevemente ricostruita.

Siamo a Gerusalemme alla vigilia della grande Festa di Pasqua. Le autorità del popolo giudaico hanno riunito il Sinedrio, cioè il gran Consiglio della nazione, e hanno decretato la morte di Gesù. Per eseguire la sentenza dovevano tuttavia ricevere il benestare dall’autorità romana, la forza di occupazione, che si era riservata la giurisdizione su ogni condanna capitale. Gesù viene perciò trasferito dal luogo del Sinedrio al palazzo del governatore romano Ponzio Pilato, che si trovava a Gerusalemme in occasione della festa. Accusato dai sommi sacerdoti di essersi proclamato re dei Giudei e quindi di attentare alla sovranità dell’imperatore, Gesù è interrogato dal governatore. La domanda che questi gli pone è molto diretta: “Sei tu il re dei Giudei?”. Gesù non dà nessuna risposta: rimane in silenzio, con grande stupore del governatore.

Conoscendo bene le autorità di Gerusalemme, Pilato non impiega molto a capire che l’accusa nei confronti di Gesù è del tutto infondata e che la richiesta di condanna è motivata dalla gelosia. Vedendo la folla che si sta radunando e avendo ben presente la ragione di questo assembramento, il governatore decide allora di tentare un colpo di mano che alla fine, almeno nei suoi progetti, farebbe il suo interesse e condurrebbe alla liberazione di Gesù. Scrive l’evangelista Matteo: “Ad ogni Festa di Pasqua il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso di nome Barabba”. Ed ecco il colpo di mano: “Alla gente che si era radunata egli chiede: Chi volete che io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?”. Pilato è certo che la folla chiederà di liberare Gesù. In questo modo egli salverà colui che ritiene innocente e non dovrà per quell’anno liberare alcun altro detenuto. La mossa è astuta ma anche altamente rischiosa. Il governatore, infatti, non si rende conto che presentando Gesù come destinatario dell’amnistia, lo trasforma agli occhi della folla in un colpevole. Succede così quello che Pilato non si aspetta: sobillata dai sommi sacerdoti, la folla non sceglie Gesù ma Barabba e chiede che sia lui ad essere liberato.

A questo punto il governatore rimane del tutto disorientato. Non sapendo bene cosa fare, si lascia sfuggire la fatidica domanda: “Ma allora che farò di Gesù?”, una domanda insensata, che lascia alla folla la possibilità di decidere. La decisione della folla non tarda a venire ed è terribile: “Sia crocifisso!”. Per quale ragione la folla chieda la morte di Gesù sulla croce è difficile dire. Sta di fatto che la situazione diviene imbarazzante e drammatica: un governatore incerto e una folla in agitazione. Davanti al tumulto che cresce Pilato si allarma. La notizia di subbugli, giunta a Roma, non gli avrebbe certo giovato. Occorre chiudere al più presto. L’innocenza di Gesù è evidente ma il pericolo è troppo serio. Pilato si fa portare un catino e si lava le mani: “Non sono responsabile – dice – di questo sangue. Pensateci voi!”. Poi consegna Gesù perché venga crocifisso, come richiesto dalla folla.

“Che farò di Gesù chiamato il Cristo?”. La frase di Pilato dimostra che ormai per Gesù non c’è più spazio. Il tentativo di liberarlo senza nulla perdere, anzi guadagnandoci, è fallito. Ora si tratta per Pilato di fare verità, di capire che cosa si è disposti a rischiare, di svelare quali sono i propri criteri di giudizio, di far emergere i riferimenti del proprio agire, quelli che veramente contano. Ed eccoli i riferimenti di Ponzio Pilato: l’imperatore e il suo giudizio, l’onore di Roma nelle province dell’impero, il controllo su ogni forma di contestazione, la dimostrazione di forza agli occhi delle autorità giudaiche. Le aquile romane e la pace che queste sono in grado di garantire: ecco ciò che conta per il governatore. Al confronto, la persona di Gesù non ha alcun valore, è qualcuno che non si sa più dove collocare, un problema da risolvere senza troppi scrupoli e al più presto.

La vicenda ha molto da insegnarci. La domanda di Pilato potrebbe sorgere anche in noi: “Che farò di Gesù? Che posto gli darò? Che spazio gli riserverò?”. Sono domande al futuro, che però chiamano in causa già il presente. Qual è al momento la mia situazione e quale sarà domani? La stagione giovanile – lo sappiamo – pone le basi del futuro.

“Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” – dice Gesù ai suoi discepoli. Ecco cosa fare di Gesù. Non dovremo forse fare di lui il tesoro del nostro cuore? Non dovremo fargli spazio con generosità nel segreto dell’anima, liberandola dagli idoli vani che ne rivendicano il dominio? Non possiamo offendere il re dei re. L’amore per lui deve essere totale e sincero. “Cristo è tutto per noi” – diceva sant’Ambrogio. Non dunque qualcosa, neppure semplicemente qualcosa di abbastanza importante, ma il principio di tutto, il fondamento della vita, la dimora in cui abitare, lo sguardo da assumere. Così scrive san Paolo ai Filippesi: “Tutte quelle cose che per me erano guadagni, io ora le considero una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo di Cristo Gesù” (Fil 3,7-8). La domanda perciò cambia. Non più: “Che farò di Gesù a partire dal mio mondo”, ma “che farò del mio mondo a partire da Gesù”.

Certo, le insegne di questo re non sono le aquile e i leoni. Egli è l’agnello di Dio, umile e mansueto. La pace che egli dona non è quella dei poteri forti. È la pace di quelli che il mondo definisce deboli e poveri. Eppure solo da lui provengono consolazione e riposo. Ecco le sue parole: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi darò ristoro. Pendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per la vostre anime” (Mt 11,28-29. Solo in lui le gelosie e le contese si sciolgono nella carità e la vita acquista tutta la sua luminosa verità. “Se uno è in Cristo è una creatura nuova – dichiara san Paolo – Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). Un grido di vittoria che abbraccia il passato, il presente e il futuro.

“Che farò di Gesù?”. In questa Veglia che ci introduce alla Settimana Santa mi piacerebbe che ognuno di noi dicesse: “Farò di lui l’amato del mio cuore, l’anima della mia anima, il sole della mia vita, la ragione della mia gioia. Farò di lui non un semplice ospite ma il mio Signore, colui che regna in me con la potenza mite della sua benevolenza. Farò di lui il segreto della mia speranza, di fronte a un mondo che a volte mi spaventa con la sua complessità ma che non è più forte del suo amore”.

Sia davvero così. Sia questo il desiderio che presentiamo al Cristo redentore, mentre ci avviamo a celebrare con fede la sua Pasqua di Risurrezione.

+ Pierantonio Tremolada